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La Diagnosi - Io non sono la mia Diagnosi

Approfondimenti tematici

Diagnosi è un termine greco che significa 'riconoscimento, discernimento, distinzione', ma anche 'valutazione, decisione'. Il padre della medicina, Ippocrate (V sec. a.C.) lo usava già col significato attuale nella definizione di quadri di malattia a partire dalle sofferenze riferite dal paziente e dalle osservazioni del medico per impostare il corretto regime terapeutico nei singoli casi. Ma non sempre il sintomo parla attraverso il corpo, la conoscenza deve rivolgersi ai pensieri, ai sentimenti, agli affetti, ai comportamenti. Allora il prefisso 'attraverso' (dià) si riferisce alla voce dell'altro, che sia silenzio, dialogo o grido. Ecco dunque il significato ultimo della parola diagnosi: conoscenza ed ascolto nell'incontro.

Cura della depressione psichiatra Trento - Rosa Rinaldi

IO NON SONO LA MIA DIAGNOSI

Attualmente in psichiatria la quasi totalità delle malattie è descritta a livello sindromico (insieme correlato di sintomi). Quello che però pesa nella psichiatria è la sostanziale mancanza di validatori esterni per la diagnosi (esami diagnostici e di laboratorio), che invece sono utilizzabili nelle altre branche della medicina.

COSA ACCADE DOPO AVER COMUNICATO LA DIAGNOSI

L’impatto con la diagnosi ha evoluzioni diverse ed imprevedibili che dipendono ovviamente dalla prognosi, dalla risposta alla terapia, dalla personalità del paziente, dalla qualità dei suoi legami. L’incontro con la malattia implica una ridefinizione della propria soggettività e la ricerca di nuove forme di adattamento.

Molte persone, anche se malate, non tollerano di dover cambiare, anche per pochi giorni, le loro abitudini. Tanto grandi sono la paura della regressione e l’angoscia di non tornare a ‘funzionare’ come prima. Solo se siamo in grado di riconoscere, in alcuni casi persino di valorizzare, la trasformazione psicologica richiesta da un’infermità potremo tollerare gli inevitabili vissuti di tristezza, impotenza e dipendenza che la malattia porta con sé.

Ciò che permette alla persona malata di convivere con la sua diagnosi, accettandola e ‘subendola’ il meno possibile, sarà la capacità di sintonizzarsi sul proprio mondo emotivo tenendolo in equilibrio con il mondo esterno.

Una regressione reversibile rappresenta infatti uno strumento efficace nell’incontro con la malattia e gli inevitabili mutamenti dell’immagine di sé e delle proprie relazioni.

UNA VOLTA FATTA LA DIAGNOSI

Compito del medico è rivelarla, non nasconderla. Nel farlo deve essere capace di servire contemporaneamente le ragioni dell’obiettività medica e quella della psicologia individuale, del caso clinico, della storia clinica. Di interpretare la tensione tra il dovere di informare il malato ed i suoi cari e quello di consentirgli di dosare speranze, aspettative ed illusioni.

Non è dal malato che dipende l’esito della malattia ma da lui possono dipendere il percorso, la narrazione e l’esperienza.

Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la continuità , il cui senso è la nostra vita, storicamente ognuno di noi è unico. Per essere noi stessi dobbiamo avere noi stessi, possedere e ripossedere la storia del nostro vissuto. Dobbiamo ripetere noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé.

Le narrazioni uniscono gli uomini, li dispongono alla condivisione. Montaigne diceva che la parola è per metà di chi parla e per metà di chi ascolta. Non è ancora più vero quando le parole sono quelle della cura? La professione clinica non si basa solo sulle evidenze, richiede la capacità di scegliere parole appropriate, spesso in situazioni drammatiche.

Il sintomo che il paziente riferisce al medico non è solo informazione, è narrazione, insieme ai suoi sintomi il paziente porta al medico una storia. E’ questa storia che rende inseparabili il malato e la malattia.

La diagnosi non è un destino. Come disse Fracoise Dolto, “Come analista so qual è la storia attraverso ciò che il tale o tal altro caso rivela, ma la storia di un soggetto è legata a delle incognite”.

Il destino non è un qualcosa di determinato, ma di indeterminato ed ignoto. Così la diagnosi, seppur ben formulata e certa, ha le sue aree insature, può produrre UN destino ma non IL destino. La malattia non sta in una definizione ma in una storia.

RELAZIONE MEDICO-PAZIENTE

La difficoltà della relazione medico-paziente è in parte colpa dei medici che non sanno o non vogliono parlare adeguatamente con i loro pazienti, ma è anche la conseguenza di un fraintendimento sulla complessa natura della medicina che i media tendono a banalizzare e su cui gli stessi medici non si soffermano a riflettere, limitandosi a pensare alla loro disciplina come una scienza, ma dedicando poco tempo alla sua inesattezza. La medicina è di certo un’attività razionale, ma non è solo scienza, è un racconto, è una disciplina che spesso si trova ad applicare il suo sapere in condizioni di incertezza.

La diagnosi è un momento di conoscenza ed incontro ed è impossibile avere un colloquio con un paziente senza farsi un’idea, anche comparativa, ovviamente modificabile, della sua personalità, del suo funzionamento mentale e delle sue relazioni.

Il più delle volte la diagnosi è una conoscenza obbligata, un accidente, un fardello, ci fa sentite bollati e menomati proprio nel momento in cui ci sentiamo più fragili ed esposti, ma con sé può portare la possibilità di ripensare la nostra storia ed il nostro futuro, il nostro posto nel mondo.